OSSERVAZIONE DI UN RAVE

di Lorenzani Massimo

Tratto da:

Officine della dissociazione.
Transiti metropolitani 

a cura di Leonardo MONTECCHI

2000 PITAGORA EDITRICE BOLOGNA
192 pagine, formato 15×21 cm, ISBN 88-371-1205-X
Collana:
“I sintomi della salute”

“Con trance BAKXAI noi allestiamo un territorio estetico, emozionale, politico, un luogo di correlazioni, con la possibilità di accedere a tutto questo anche al di fuori delle sostanze… Se si facesse trance BAKXAI con i DJ e con la tecno, per la maggior parte della gente sarebbe un rave normale, invece a noi interessa la differenza. Allora sposti, diminuisci la velocità, rallenti, affinché l’emozione sia anche pensiero. Noi non parliamo di rappresentazione, ma di esecuzione”

(Roberto Paci Dalò).

Nell’Indice:

Capitolo 1. Introduzione.

Capitolo 2. Le interviste a Riccione e a Rimini.

Capitolo 3. Le osservazioni al Cocoricò.

Capitolo 4. Storie di vita.

Capitolo 5. Ecstasy e dintorni.

Capitolo 6. Le sostanze, la metropoli e il centro sociale.

Capitolo 7. Il teatro della ketamina.

Capitolo 8. Osservazioni di un rave.

Capitolo 9. Dispositivi per dissociazioni.

Capitolo 10. Teoria e pratica della trance.

Capitolo 11. Scritto sul corpo.

Capitolo 12. Technognaua.

Leonardo Montecchi è psichiatra, Direttore della Scuola di Prevenzione “J. Bleger” di Rimini.

Capitolo 8 :

OSSERVAZIONE DI UN RAVE


di Lorenzani Massimo

RAVE E TRANCE

Il rave è la forma privilegiata dalla nostra società per raggiungere collettivamente stati modificati di coscienza.

Questa è in sintesi l’affascinante ipotesi di lavoro di Georges Lapassade e Leonardo Montecchi nel loro studio a differenti livelli della trance metropolitana, ma soprattutto questa per me è stata l’idea ispiratrice di tutto il mio lavoro di tesi in Filosofia qui a Bologna, intitolato guarda caso “Musica ,trance e ritualità”.

Associare i ritmi ossessivamente percussivi della scena techno alla musica tradizionale nei rituali di trance di possessione africani o haitiani per esempio, non è certamente un’operazione nuova, infatti la musica elettronica ormai da più di dieci anni comprende al suo interno la trance come genere o tipologia musicale, tuttavia vedere nel rave un dispositivo che ha come scopo principale l’induzione di stati modificati di coscienza nei suoi partecipanti, presenta diversi problemi sia dal punto di vista teorico-antropologico che soprattutto da quello metodologico nell’osservazione e documentazione di eventuali casi di trance(per una definizione adeguata di trance vedere

G.Rouget,”Musica e trance”,1986).

Proprio questo secondo aspetto mi ha spinto lo scorso marzo a collaborare attivamente col Laboratorio Antiproibizionista del Livello57 in occasione del convegno “Sostanze, pianeti, interventi” tutto centrato sulle problematiche connesse all’uso ed all’abuso di sostanze vecchie e nuove, in cui ognuno di noi ha messo in gioco la propria esperienza personale nel vivere la musica, la notte, le sostanze e durante il quale lo stesso Georges Lapassade, che da anni ormai collabora col Livello57, mi ha manifestato la sua preoccupazione relativa all’impossibilità quasi metodologica di reperire casi documentati di esperienze di trance nei raves.

Vorrei solo accennare alla centralità della figura di Lapassade nella ricerca sulla trance di possessione, che più di vent’anni fa sperimentò in prima persona la trance rituale degli Gnaua(Marocco) e la Macumba(Brasile), utilizzando a livelli estremi in Sociologia Istituzionale il metodo dell’Osservazione Partecipata, in cui l’osservatore non solo è sempre e comunque parte dell’evento, ma concorre attivamente a determinarlo o addirittura è lui stesso l’evento(come nei casi appunto di trance di possessione o anche di viaggi psichedelici indotti da psicotropi).[vedi G.Lapassade “Dallo sciamano al raver”,1997].

L’impossibilità di un’osservazione oggettiva, quindi scientifica nel accezione galileiana del termine, di eventi così profondamente soggettivi come gli stati modificati di coscienza, si giustifica storicamente attraverso le basi cliniche della Psicanalisi (inconscio, sogni, sintomi, ecc.) e soprattutto per quanto mi riguarda sulla ricerca di una grande corrente antropologica quale

Il Relativismo Culturale(vedi C.Geertz “Interpretazione di culture”,1987), che più in generale stabilisce come l’unico modo per l’uomo occidentale di capire una cultura lontana dalla propria sia quello di abbandonare il suo modello di esistenza ed adottare quello dell’altra cultura.

Questa posizione sicuramente estrema ai giorni nostri, riflette però nei fatti più di quarant’anni di viaggi allucinogeni di psiconauti da Hoffmann in poi, poiché risulta evidente come sia impossibile capire in tutti i suoi aspetti un’esperienza di dissociazione da lsd, per esempio, senza avere mai provato in prima persona la sostanza.

Parlando di trance nei raves, però, ci troviamo di fronte ad una complessità non nuova: la componente “chimica” e quella “culturale”, non possono assolutamente essere separate, in quanto assumere extasy, ketamina, speed e quant’altro ascoltando musica techno a casa in poltrona non porta allo sballo di un rave , perché il dispositivo-rave è in tutto e per tutto assimilabile ai dispositivi rituali tradizionali delle trance di possessione, in cui alla base di tutto il meccanismo non c’è solo un preciso setting di luoghi, spazi, tempi, costumi, musiche, allucinogeni o meno, ma soprattutto ci deve essere da parte di ogni iniziato al rituale, la condivisione totale al modello di civiltà celebrato.

Ovviamente in un rave-party questa condivisione è totalmente implicita, o meglio inconsapevole, in quanto l’adesione al modello dello sballo, è esplicitata continuativamente attraverso modi diffusi di vestire, ballare, di cantare slogans, di nutrirsi e “calarsi” in modi molto precisi.

Tutto questo però viene vissuto a livello totalmente individuale, per cui paradossalmente si assiste ad una folla di individui che non hanno niente da comunicarsi al di fuori della voglia inesauribile di “sballarsi”, un desiderio fine a se stesso che è sufficiente con la sua dirompente carica di tragressione ad unire fino all’alba il popolo della notte, “poi ognuno per i cazzi suoi, chi si è visto si è visto”.

Questa è in fin dei conti la differenza fondamentale tra un rave ed un rituale tradizionale di trance di possessione, ed è la stessa differenza che passa tra il concetto di folla e quello di comunità, dove in una comunità di persone che vivono sempre insieme e credono alle stesse cose, la trance è utilizzata come la risorsa più intima, carnale, passionale, dionisiaca ed allo stesso tempo sacra, divinatoria, sacrificale per comunicarsie risistemare ad un livello altro di coscienza rispetto alla veglia i reciproci problemi esistenziali, evidentemente irrappresentabili in qualsiasi altro modo; mentre la folla dei ravers è il meeting point di centinaia di individui estranei accomunati solo dalla ribellione spesso incontrollata verso i meccanismi alienanti del consumismo di massa, una trasgressione che purtroppo in realtà diventa sempre più simile ad un’autodistruzione meccanica che all’alba finisce, senza aver inciso di una virgola sulle cause sistemiche del disagio, anzi a volte rimangono purtroppo solo le macerie , se non si arriva ad un livello di consapevolezza tale da valorizzare al massimo quanto c’è di creativo, liberatorio ed alternativo in questi eventi: manca, cioè, una cultura della trance.

Ora torniamo al problema principale: pur rimanendo un’esperienza oscura a chi non l’ha vissuta da protagonista, la trance rituale tradizionale è uno stato psico-fisico riconoscibile abbastanza facilmente, essendo codificato in modo preciso attraverso le varie culture, mentre la trance nei raves è sempre e comunque un fatto individuale con modalità espressive imprevedibili per un osservatore non coinvolto nell’evento, per cui solo un osservatore pienamente partecipante allo sballo del rave si trova nella condizione di vivere direttamente la trance e magari di percepirla sugli altri.

Ed è proprio da questa posizione di osservatore partecipante che intendo descrivere un sorprendente episodio di trance che ho incontrato durante un grosso rave nei dintorni di Bologna.

Diario di un viaggio

Torniamo all’ultima settimana di settembre di quest’anno(1998).

Sabato sera, tramonta il sole ed inizia subito a salire la febbre del rave.

Mercoledì ho avuto la notizia da un amico fidato che ci sarebbe stato un rave goano sull’appennino bolognese, come al solito: i Goani(da Goa in India, si tratta raves di medie dimensioni caratterizzati da un tipo di musica techno-trance psichedelica molto rilassante con allestimenti tropicali variopinti e fluorescenti) li conosco bene da tempo, mi fido di loro, scelgono di solito posti molto appartati tra le colline e sono conosciuti come i più tranquilli, da loro si trovano sempre sostanze( extasy e trip soprattutto) poco anfetaminiche e molto empatogene.

Giovedì, però, vengo a sapere che ci sarà una grande festa techno a Sassomarconi, in cui convergeranno sicuramente tutti i tossici, freaks e punkabbestia più scoppiati di Bologna essendo a ingresso libero e molto vicino, ma io scelgo senz’altro i Goani, voglio andare sul sicuro.

Sono preoccupato, oggi è stato bello, ma ha piovuto due giorni di fila e fa freddino, così telefono alle 20 per la conferma: tutto a posto, il rave ci sarà, probabilmente già in Toscana, appuntamento a mezzanotte al solito meeting point (il punto di partenza, in cui si ricevono i flyers, volantini, per arrivare al posto).

Nottata elettrica, luna piena, un amico rinuncia piantandomi in asso all’ultimo minuto, parto da solo e arrivo con 40 minuti di ritardo al meeting point, però mi dicono che sono appena partiti, così mi butto subito all’inseguimento.

Sono nervoso, frenetico ma anche eccitato tanto che quasi subito mi fermo a caricare tre ragazzi in cerca di rave, proseguo all’avventura, fiducioso di trovare qualche indizio strada facendo.

I ragazzi sono molto simpatici, si chiacchera, si ride e si inizia a fumare( hashish) molto.

Io rallento, mi rilasso senza problemi e senza farci troppo caso dopo un’ora e mezzo mi ritrovo davanti il cartello di Pistoia( 80 km da Bologna!), mi fermo, tutti ci riprendiamo di colpo, preoccupati decidiamo di tornare, ridendoci addosso e consolandoci con altro fumo a volontà. Gli altri già hanno rinunciato all’idea del rave, ma io ci credo ancora: il paesaggio lunare abbandonato di montagna che ci avvolge è semplicemente incredibile, sento molto la luna e cresce la febbre.

Arrivo in scioltezza e molto fumato a Sassomarconi, e di colpo mi ricordo della festa free di cui mi avevano parlato, propongo agli altri di cercarla, loro accettano subito e dalla prima macchina che ho fermato veniamo a sapere che c’è lì vicino c’è la festa della luna con un sacco di gente.

Partiamo eccitatissimi e arriviamo poco dopo nel parco dei Prati di Mugnano: sentiamo la techno battere sui finestrini, mollo subito la macchina e cominciamo a camminare sempre più veloci e poi a correre e a ridere, perché il posto era lontanissimo.

Sono arrivato finalmente, lo sapevo, impazzisco di gioia: sono già le tre, saluto i miei compagni di viaggio e mi tuffo nella folla.

Bellissimo il paesaggio: oltre duemila persone sparse in una grande radura in mezzo al bosco e a lato un villaggio di capanne e tende dove i freaks improvvisano un rinfresco quasi sulle rive di un fiume.

Luna magnetica, freddo pungente, il prato è fradicio ma la musica è una forza: nella radura ci sono due sound system inglesi, credo, il più grande faceva techno violenta, veloce, ossessiva ad un volume pauroso mentre l’altro, più piccolo, appartato, era decisamente trance, drum and bass a volte, spaziale.

Ballo per oltre un ora, il prato è ormai diventato fango, il freddo si fa sentire ed io cerco qualcosa per scaldarmi: incontro due amici ma nessuno ha una cala(extasy) da vendermi, così decido di continuare a viaggiare con la maria(marjyuana) che non manca mai in questi casi, dato che ero già arrivato ad un buon livello di fumo durante il viaggio di avicinamento.

Scelgo di stare nei pressi del sound system più piccolo, si adatta meglio al mio stato di psichedelia rilassata, e verso le quattro e mezzo comincio a notare un gruppetto di cinque sei persone appena sulla destra della piccola tettoia in stile militare davanti al tavolo dei djs.

Mi avvicino e sento un suono caldo e familiare per me: guardo meglio e non senza sorpresa vedo un ragazzo che suona accovacciato su uno jembè a non più di tre metri dalle casse.

Non riesco a credere ai miei occhi e soprattutto alle mie orecchie: questo soggetto neppure ventenne probabilmente, sta utilizzando la techno come base infilando una dietro l’altra frasi di colpi ossessive e irregolari in crescendo con esplosioni di ritmo magnetiche.

Infatti ben presto l’attenzione generale di tutta la pista (una trentina di persone almeno) è solo su di lui, sebbene il volume non sia certo leggero, ed alcuni cominciano pure ad avvicinarsi a lui come attratti da una forza traente; tra questi c’è anche un ragazzo che da tempo si è già fatto notare da tutti per la sua frenesia: è il classico impastato( pieno di paste, cioè di extasy), in maglietta incurante del freddo, con la faccia cotta, arrossata dalla vasodilatazione, lo sguardo acceso, agitatissimo e continuamente in cerca di ragazze .

Bene, proprio su di lui si è concentrato il percussionista, fissandolo a lungo negli occhi e catturandolo in pochi secondi nella sua spirale ossessiva, pazzesco: ad ogni suo colpo, ad ogni accelerazione del ritmo il danzatore risponde a comando, con lo sguardo fisso, ipnotizzato, completamente in balia del ritmo crescente.

La scena è continuata per più di venti minuti e con qualche pausa anche dopo a sprazzi di esplosioni, mentre tutti quanti in semicerchio danzavamo estasiati quanto increduli, battendo le mani ed incitando i due, quasi stessimo assistendo ad una sfida.

Io adoro le percussioni tradizionali, soprattutto lo jembè o rombo di tuono secondo gli africani e conosco abbastanza bene i ritmi utilizzati nei rituali di possessione tradizionali e le somiglianze tra queste due realtà così distanti sono fin troppo evidenti: per me non c’è stata ombra di dubbio, avevo appena assistito ad una trance danzante durante un rave.

Ovviamente dopo qualche tempo mi sono avvicinato al percussionista complimentandomi con lui(come tutti del resto) e chiedendogli spiegazioni: mi ha detto senza difficoltà che lui ai raves si diverte solo se riesce a fare ballare gli altri al suo comando, ragazzi e ragazze di ogni età, dicendo che la techno non troppo veloce è ideale per i suoi ritmi, che lui ha detto di aver imparato a Bologna in un solo(!?!) stage di percussioni africane, esercitandosi poi per suo conto da un anno a questa parte con l’idea di unire techno e jembè .

Un’ora dopo l’ho rivisto suonare a lato del sound system più grande, ma mi è sembrato che il volume fosse impossibile da gestire ed all’alba anche lui come me si è arreso al freddo ed alla fame.

Tratto da “Le Officine della Dissociazione” di Leonardo Montecchi,

2000 PITAGORA EDITRICE BOLOGNA

https://www.pitagoragroup.it/pited/Montecchi%20officine.html